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A 80 chilometri a nord di Damasco, in cima ad uno sperone di roccia che sorge in mezzo al deserto, non lontano dal villaggio di Nebek o Nbak, si trova il Monastero di Deir Mar Mousa.
Secondo la leggenda il monastero sorge nel luogo in cui si era rifugiato in eremitaggio Mosè l’Abissino, figlio del re d’Etiopia, dopo aver rinunciato alle gioie terrene per una vita ispirata alla spiritualità e alla meditazione. Martirizzato dai soldati inviati da Bisanzio per non aver voluto rinnegare la sua fede, di Mosè resta oggi solo il pollice, reliquia gelosamente custodita nella chiesa di Nbak.
Per arrivare in cima al monastero vi è una lunghissima scalinata tagliata nella pietra. Via via che mi avvicino mi giungono delle voci. Sulla terrazza antistante il monastero quattro o cinque ragazze nordiche con i capelli legati in treccine strette prendono il sole leggendo. Poco dopo appare un ragazzo che ci propone un tè. Si chiama Frédéric, è alto, biondo, e sorride con dolcezza. Sono due anni che vive al monastero - racconta – e sei che ha preso gli ordini. Il responsabile del monastero è Paolo, un gesuita italiano. È stato lui che nel 1983 si è arrampicato su per queste rocce, in mezzo ad uno dei deserti più aridi della Siria, fino alle rovine dell’attuale monastero. C’era ancora qualche muro in piedi e gli affreschi della cappella, affreschi dell’ XI secolo, ocra, rossi e gialli, erano totalmente nascosti dalla sabbia che li aveva coperti nel corso del tempo. Paolo, culturalmente, è un mussulmano. Ha studiato a fondo l’arabo e l’Islam. E il suo sogno è sempre stato quello di far convivere le religioni. Per farlo, bisognava far rivivere il monastero. E Paolo, quando si fissa una cosa in testa è come uno tsunami.
No – continua Frédéric - loro non sono gesuiti, mi dice, ma appartengono alla Chiesa Siriana e sono Uniati. Possono sposarsi, specifica, ma rispondono sempre al Papa di Roma.
Oltre a Frédéric, c’è Jak, un monaco di Aleppo, Jens, uno svizzero di Zurigo, che stava andando a piedi, zaino in spalla, a Samarcanda e si è fermato al monastero. E poi c’è Butros, un cazaro, Ramona, originaria delle alture del Golan, Huda, una damascena, e Jihad, un cristiano maronita di origini libanesi.
Al monastero, nella cappella afftrescata ma coperta di tappeti come le moschee o le antiche chiese d’Oriente, i monaci e le monache, pregano e praticano il ramadan, assieme ai fratelli mussulmani. Questo è tante altre cose fanno sì che i mussulmani della regione considerino Deir Mar Mousa, un poco come il loro monastero.
Deir Mar Mousa è aperto ai viaggiatori che passano e decidono di scalare lo sperone roccioso. Se non ci sono letti per dormire possono trascorrere la notte adagiati sui tappeti della cappella. L’ospitalità, in questo mondo semita, arabo e nomade d’origine è sacra e fa parte delle tre regole del luogo. La prima è la scelta assoluta di sperimentare assieme la diversità, nel dialogo, nel silenzio e nell’armonia. La seconda, quella di usare le mani. Per toccare e lavorare la terra, la pietra, gli affreschi, il computer, le mandorle, le capre, l’orzo, le immondizie, le olive.

